
I giganti della montagna
I giganti della montagna è un un dramma, incompiuto, il cui ultimo atto è ricostruito da Stefano, il figlio di Pirandello, secondo le indicazioni che il padre gli diede in punto di morte. Fu steso nel 1933, ma Pirandello vi lavorava già dagli anni Venti.
Nel 1929, Pirandello ne parla in un’intervista rilasciata ad Enrico Roma. Lo descrive come un dramma satirico, una satira del tempo, che racconta di una contessa, un’attrice, cui un caro amico, con cui aveva un legame molto stretto, lascia in eredità, alla sua morte, il suo lavoro drammatico, inedito e nuovissimo. La dedizione della donna alla messa in scena del lavoro insospettisce il marito, il quale credeva vi fosse un legame amoroso tra la moglie e l’amico autore, ma proprio la devozione della donna a quel dramma, che trascende ogni implicazione materiale, fa cadere i sospetti dell’uomo, certo che non possa esserci coinvolgimento della carne con un altrettanto intenso coinvolgimento spirituale. E su questo dissidio tra materia e spirito Pirandello dice di fondare il suo dramma. Nell’intervista, racconta di come la contessa, nonostante una brillante carriera, si fosse incaponita a voler rappresentare a tutti costi questo dramma dell’amico, a continuare a portarlo in scena nonostante gli insuccessi, certa che un giorno avrebbe trovato il giusto pubblico. Lentamente tutti gli attori l’abbandonano, finché non le restano accanto solo i guitti, i più umili, incapaci di staccarsi dalla capocomica più per viltà che per amore. La malmessa compagnia giunge un giorno in un imprecisato villaggio in cui un genius loci parla loro di questi ignorantissimi e ricchissimi contadini che vivono in cima alla montagna, i quali s’appressano a celebrare un matrimonio. In quell’occasione la rappresentazione avrebbe potuto aver luogo. E così, dopo un banchetto omerico, inizia. Ma gli spettatori confondono realtà e finzione, se la prendono con gli attori, parteggiano, arrivano a malmenarli. Così, dice Pirandello, si mescoleranno realtà e illusione, dramma e buffoneria.
Ma rispetto a questa descrizione, gli anni passarono e l’opera, con l’andar del tempo, si approfondì, assunse connotati diversi.
Il dramma si apre con un albero, un cipresso, e si chiude con un altro albero, un ulivo saraceno.
Stefano racconta di come il padre passò tutta la penultima nottata della sua vita a pensare all’ultimo atto di questo dramma, atto ricostruito e illustrato scrupolosamente dal figlio, finché, al mattino, gli disse sorridendo: “C’è un ulivo saraceno, grande, in mezzo alla scena: con cui ho risolto tutto”.
Ma veniamo al dramma così come Pirandello l’ha composto. La compagnia della contessa giunge alla villa detta, incisivamente, ” La Scalogna”, dove vive Cotrone con i suoi Scalognati. Questa villa è un posto magico e misterioso, un luogo di sogno e illusioni. Pirandello, con gli anni, infatti, non approfondisce l’aspetto satirico del dramma, bensì quello del conflitto tra materia e spirito, realtà e illusione, che è il perno di tutta la sua opera. E’ un dramma notturno, che si dispiega alla luce della luna e a quella delle lucciole: “Questo nero la notte pare che lo faccia per le lucciole”. E le lucciole sono quelle di Cotrone, le sue, di mago: “Siamo qua come agli orli della vita, Contessa. Gli orli, a un comando, si distaccano; entra l’invisibile; vaporano i fantasmi. E’ cosa naturale. Avviene, ciò che di solito nel sogno. Io faccio avvenire anche nella veglia. Ecco tutto. I sogni, la musica, la preghiera, l’amore… tutto l’infinito ch’è negli uomini, lei lo troverà dentro e intorno a questa villa”. E ancora, sulla verità: “Io ho sempre inventate le verità, e alla gente è parso sempre che dicessi le bugie. Non si dà mai il caso di dirla, la verità, come quando la si inventa… Le maschere non si scelgono a caso!”. Tutto il racconto, i dialoghi, l’atmosfera sono intessuti di sogni e visioni, di riflessioni riguardo un’anima che, liberata dalla materialità di onori e oneri, valori e virtù, si fa “grande come l’aria, piena di sole o di nuvole, aperta a tutti i lampi, abbandonata a tutti i venti, superflua e misteriosa materia di prodigi che ci solleva e disperde in favolose lontananze”.
Si parla dei sogni, che vivono fuori di noi, e del fatto che “ci vogliono i poeti per dar coerenza ai sogni”. Nella villa della Scalogna si vive nell’immaginario del sogno. Alla fine, si decide di mettere in scena il dramma per i giganti della montagna. Si troveranno di fronte i “fanatici dell’arte”, gli attori e gli Scalognati, e i “fanatici della vita”, i ricchissimi e burberi giganti. La contessa finirà uccisa. Per il marito, con lei sarà la Poesia stessa a morire.
Ma per Cotrone, l’arte che oggi non parla ai fanatici della vita potrà sempre parlargli un giorno; sono i fanatici dell’arte, esclusi dalla vita, chiusi nei propri sogni che cercano d’imporre agli altri, che non sanno come parlare agli uomini. Con questa consapevolezza Pirandello chiude il dramma, e con esso sembra chiudersi anche quella dicotomia tra arte e vita che lo caratterizzò. Il dramma che si apriva con il cipresso, questo meraviglioso albero cantato dai letterati, da Pascoli a Carducci, si chiude con l’albero più caratteristico della sua terra: un grande ulivo saraceno, da cui si estrae l’olio che, un tempo, accendeva i lumi. Da un simbolo di morte a un simbolo di vita, dunque. Da una tradizione astratta alla concretezza. E forse fu proprio su quel letto, parlando al figlio e pensando al suo dramma, che Pirandello, figlio del Caos, trovò, finalmente, l’accordo, la pace.